mercoledì 30 dicembre 2015

Prendere il Sole per il massimo dei benefici senza conseguenze negative - by Davide "Moksha"

Con molto piacere ricevo e condivido con voi questa interessantissima ed illuminante (è il caso di dirlo) testimonianza del caro amico Davide.

Questa testimonianza non deve essere considerata un parere o un consiglio medico, perché ovviamente non lo è, ma può essere un importante spunto di riflessione soprattutto per sfatare alcuni miti sulla presunta “pericolosità” del Sole.

Come sempre il mio consiglio è di non credere a nessuno, nemmeno a questo blog , ma di informarsi, approfondire e verificare, perchè solo l’esperienza in prima persona può generare la vera Consapevolezza di noi stessi e del mondo intorno a noi.

Felice Vita Consapevole
Salvo


by Davide "Moksha"

Ciao, mi chiamo Davide, ed ho 33 anni. Volevo condividere con voi la mia esperienza di quest'anno, in cui per la prima volta ho giovato appieno del Sole in tutta la sua potenzialità, senza uso di creme, occhiali da sole e senza scottarmi.

Premetto che ho una pelle da sempre molto (ma molto) bianca, un fenotipo delicato che tende a scottarsi in un attimo non appena il primo Sole un po' più intenso compare verso la primavera.

Fin da piccolo, ho sempre dovuto proteggermi molto bene con magliette, creme solari ad alta protezione (gradazione dal 30 al 50), quindi non potendo quasi mai esporre la pelle "pulita" direttamente alla luce solare ed in più impiastrandomi con una lista lunghissima di sostanze, per lo più aberranti, contenute nelle creme (molte delle quali, a forte sospetto di alto potenziale nocivo). Di solito, dopo l'uso delle creme, mi si ingrassava ancor di più la pelle e sul viso spesso mi venivano brufoletti, eccesso sebaceo ecc.

La mia pelle non aveva neanche il tempo di diventare colorita per la fine dell'estate e quindi anche se solo per un giorno, per poco tempo, la crema mi si toglieva e rimanevo al sole, la sera la scottatura era garantita. Ho anche sempre usato gli occhiali da sole: alla fine credevo anche qui nella (dis) informazione che dilaga, ovvero che i raggi del sole fanno male agli occhi, che bisogna proteggere con occhiali ecc., ed, in effetti, creando un'abitudine a portarli, si è sempre più vincolati ad essi e si sviluppa un'ipersensibilità che poi ci porta a non poterne più fare a meno, neanche nelle giornate di sole invernali.

Fortunatamente, da quest'anno, anche con progressi che ho fatto nell'alimentazione (che è passata, in circa 3 anni e mezzo, da vegetariana, a vegana, a fruttaliana e fruttariana) ed alle nuove informazioni che sono riuscito a reperire da amici, conferenze e dall'Igienismo Naturale, sono riuscito ad avere un altro "rapporto" con il nostro Sole.

Ho scoperto che, così come i nostri progenitori e così come tutti i "primati" e tutti gli animali allo stato naturale, anche l'uomo, nel suo clima ideale (sub-tropicale - equatoriale) prenderebbe il sole un po' tutto l'anno e, comunque, riuscirebbe ad abituarsi al sole più caldo iniziando dalla primavera ad esporsi al sole più gentile, quindi già automaticamente adottando una gradualità che lo porterebbe ad essere abituato e resistente ai raggi più intensi dell'estate. Ed ovviamente, senza chimica, senza crema, senza coprirsi, senza...ombrelloni!

Decisi quindi di approfittare subito dei primi raggi di sole di marzo, non appena si facevano vedere, cercando di uscire almeno mezz'oretta dall'ufficio durante la pausa pranzo, andando in una stradina un po' appartata ed esponendomi direttamente (per le parti che riuscivo a scoprire "accettate" dalla società del "falso pudore", quindi faccia, braccia ed un po' le gambe), senza nessuna crema.

Iniziai con 15-20 min di esposizione al flebile sole di marzo (flebile almeno qui al nord, in Piemonte), per poi pian piano arrivare anche a circa 30 min, orientativamente nella fascia oraria 14.00-14.30.

Tutto ok: nessun problema e vedevo che la mia pelle, bianca "smorta" cominciava ad assumere un colorito, diventava più liscia e iniziava ad aumentare anche la sensazione di buonumore ed energia.

Presi così fiducia e, nelle giornate più calde festive, mi recavo in un giardino pubblico e mi mettevo in costume a prendere il sole a corpo intero, prima mezz'ora per lato, poi un'ora, decidendo di quanto incrementare semplicemente ascoltando il corpo: stando al sole non più del tempo che fa arrivare un leggerissimo arrossamento "sano", senza mai arrivare al limite della scottatura, ed incrementando solo quando la pelle è diventata scura a sufficienza per non dare più questo sintomo.

Via via che i mesi passavano, vedevo che le mie energie aumentavano, assieme al buonumore ed alla voglia di stare all'aperto, al sole, di fare attività fisica.

Inoltre, prendendo il sole, anche il senso della fame (spesso falsa perché solo emotiva) si riduceva, come se i raggi solari mi ricaricassero come una pila!

Riguardo alla fascia oraria in cui prendevo il sole, dopo aver seguito alcune conferenze ed interviste di esperti, scelsi quella a cavallo delle ore più calde (11.30-15.30 circa). Al contrario di come attualmente la medicina istituzionalizzata (e quindi l'immaginario collettivo) divulga, per beneficiare della produzione della vitamina D da parte del sole, occorre prenderlo nelle ore più calde, in quanto i raggi UVB, responsabili della produzione della vitamina, sono onde elettromagnetiche a corta lunghezza d'onda, quindi riescono a raggiungerci solo quando il sole è piuttosto a perpendicolo rispetto alla superficie terrestre.

In realtà, anche la medicina istituzionalizzata, fino a circa 100 anni fa, ha sempre usato i bagni solari in fasce calde della giornata come cura per molti problemi (debolezza, rachitismo, problemi alla pelle, disturbi psicologici come depressione, ecc.), poi, un po' per allarmismo e scarsa informazione sul come prendere il sole con cautela, un po' per motivi culturali, un po' per interessi economici a vendere prodotti cosmetici (i quali, a loro volta, essendo nocivi loro stessi ed impedendo di assumere direttamente la benefica vitamina D, alimentano indirettamente anche l'industria del farmaco), i bagni solari caddero in disuso e la disinformazione dilagò (ora, in tv e ovunque vi sia un medico che dà consigli, si sente l'opposto: prendere il sole con protezione ed evitarlo nelle ore più calde!). Oltre al fatto che la maggior parte delle persone non vive in climi specifici per la nostra specie, anche questa disinformazione contribuisce a far rimanere molto bassi i livelli del sangue di vitamina D nella media della popolazione, soprattutto nei paesi più nordici, dove vi è ancor più carenza solare, sia come ore di luce che come intensità dei raggi.

Come ho già detto, le ore più calde sono, sì, anche quelle dove c'è più rischio di scottatura, ma proteggendo bene la testa, con un cappellino, ed abituando la pelle (e la mia è sempre stata bianchissima!) prima per pochi minuti, senza troppo arrossarsi, poi aumentando il tempo d'esposizione, si può arrivare a prendere il sole nelle ore più calde anche 1h per lato del corpo senza avvertire disturbi e facendo un pieno di vitamina D, la quale ci aiuterà a prevenire tante malattie ed a regalarci quella vitalità, quel buonumore e quella forza che, spesso, lontani dal nostro ambiente naturale sub-tropicale, ci hanno fatto dimenticare.

Personalmente, ho anche verificato i livelli di vitamina D nel mio sangue, ed essi, grazie a queste tecniche, si sono assestati, senza uso di integratori, agli stessi livelli di quando ne assumevo.

Queste informazioni, assieme ai benefici della vitamina D e la sua importanza nella prevenzione delle malattie, si possono trovare in questa intervista alla Dott.ssa Debora Rasio https://www.youtube.com/watch?v=Sf8_R_ScBhE  oppure anche in questa altra intervista https://www.youtube.com/watch?v=-89uGl2D5IE

Quando possibile, al mattino presto, sennò con gli occhi semichiusi o non guardandolo direttamente, faccio anche Sungazing, ovvero l'osservazione del sole. Avevo letto degli incredibili benefici che questa tecnica può portare, se fatta con le dovute cautele. Dev'essere graduale, pochi secondi e poi chiudere gli occhi, e non guardando direttamente il disco solare, oppure guardandolo solo all'alba o al tramonto, altrimenti si rischia, sì, di procurare danni seri. Sentii grande riconnessione ancor più profonda con il Sole che per tutta la vita mi ero quasi sempre negato nella sua fruizione appieno, sentivo che la luce mi rinvigoriva, mi faceva uscire dal letargo delle stagioni fredde e aiutava a ristorare il mio cuore anche dalle brutte giornate, contribuendo a restituirmi le energie perse ed il buonumore, la voglia di essere attivo e vitale. Per giovarne, è molto utile anche non usare occhiali da sole: ne ero quasi dipendente, non potevo farne a meno neanche d'inverno, ma abituandomi, riuscii proprio a non sentirne più il bisogno, perché gli occhi ed il corpo vogliono in realtà riceverla questa luce a loro tanto necessaria e, dopo un po' che si riesce a fare a meno degli occhiali da sole, si sente proprio la necessità a farsi permeare appieno da questa energia, stando all'aperto e cercando di guardare, con le giuste cautele, tutta questa luce.

Se stiamo troppo al buio, o non facciamo entrare negli occhi sufficiente luce, è come se comunicassimo al corpo che siamo in una stagione buia, fredda, quasi come se incentivassimo un "letargo", con tutti i suoi sintomi, quali senso si stanchezza, svogliatezza, ecc. , con possibile rallentamento anomalo del metabolismo e causando, talvolta, anche disturbi dell'umore. Tutti noi conosciamo, infatti, gli effetti metereopatici che, spesso, ci fanno sentire tristi nelle giornate uggiose o comunque, quando c'è carenza di luce, ed invece più pimpanti nelle belle giornate. In generale, come è giusto che sia in natura, la luce stimola la veglia, mentre l'oscurità stimola il sonno ed il riposo. Se noi, anche di giorno, ci copriamo gli occhi, è come se simulassimo un crepuscolo perenne, portando il corpo ad alterare i propri bioritmi in modo non naturale e quindi poi, magari, avendo bisogno di più ore di sonno del normale o, forse peggio, di cibi e bevande stimolanti (per non parlare di farmaci), per ripristinare le prestazioni che la natura ci darebbe spontaneamente.

L'occhio è la porta, l'unica trasparente, attraverso la quale i raggi del sole possono raggiungere e irradiare direttamente il sangue. Tutto il flusso sanguigno del nostro corpo, in circa due ore, attraversa i nostri occhi: se quindi stiamo alla luce, cerchiamo (con gli accorgimenti di sicurezza e prudenza sopra menzionati) di abituarci a, quando è possibile, osservare il sole, oppure a puntare lo sguardo un po' più in basso del disco solare e tenere gli occhi semiaperti, i raggi del sole arriveranno a permeare tutto il nostro sangue e linfa, donandoci la produzione di altra vitamina D, purificando la circolazione, stimolando la naturale vitalità e forza dell'organismo, tipiche delle stagioni calde, dove il clima diventa più simile a quello specifico per la nostra specie, apportando benefici anche alla sfera psicologica e spirituale. Vi sarà un senso di benessere e rinascita. Anche il Sungazing è una pratica molto antica, citata già, ad esempio, negli antichi testi dello Yoga (Trataka: fissazione dello sguardo in un punto, anche luminoso, come il sole mattutino e serale) e praticata da millenni. Potete cercare su internet dove vi sono moltissimi articoli, ai quali vi invito di riferirvi per ulteriori dettagli su questa pratica e sui suoi benefici.

Questa è stata la mia esperienza di, per così dire, "riconnessione col Sole", che se posso ripeto anche nelle stagioni più fredde, durante le passeggiate in cui cerco di esporre viso e braccia al Sole e cercando anche di guardarlo, magari non direttamente, oppure quando è un poco velato da una nuvola ed è possibile tenere lo sguardo fisso.

Sento che il pieno di vitalità e vitamine che ho potuto avere quest'estate mi accompagnerà fino alla prossima bella stagione ed è come se quel Sole caldo permanesse dentro, mantenendo quella forza e carica che tanto sono a noi necessarie per giungere a quel Ben-Essere costante e duraturo, che magari ci siamo un po' dimenticati, ma al quale tutti possiamo di nuovo attingere.

Davide



lunedì 14 dicembre 2015

Kamut: un mito da sfatare



Ha buone proprietà nutrizionali ed è eccellente per la pastificazione, ma non è stato "risvegliato" da una tomba egizia e non è adatto ai celiaci. Inoltre viene coltivato e venduto in regime di monopolio, ha un costo eccessivo e una pesante impronta ecologica.



Luci e ombre sul Kamut - o meglio, del Khorasan: un tipo di frumento che tra l'altro abbiamo anche in Italia.
"Kamut" non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come "Mulino Bianco" o "McDonald's") che la società Kamut International ltd ha posto su una varietà di frumento registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in regime di monopolio e famoso in tutto il mondo grazie a un'operazione di marketing senza precedenti.

C'è chi chiama questa varietà anche "grano del faraone", perchè si racconta che i suoi semi sono stati ritrovati intorno alla metà dello scorso secolo in una tomba egizia e inviati nel Montana, dove dopo migliaia di anni sono stati "risvegliati" e moltiplicati.
Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo ritrovamento, l'attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali e una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine. Parliamone.
Il Frumento orientale o grano grosso o Khorasan - lo chiamiamo con il suo nome tramandato, comune e «pubblico», mentre Kamut è un nome di fantasia registrato - è una specie (Triticum turgidum subsp. turanicum) appartenente allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto) alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di quella di qualunque altro frumento; è originario della fascia compresa tra l'Anatolia e l'Altopiano iranico (Khorasan è il nome di una regione dell'Iran); nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravvissuto all'espansione del frumento duro e tenero.

L'invenzione commerciale del ritrovamento
Dunque, per trovare il Khorasan in Egitto non era (e non è) davvero necessario scomodare le tombe dei faraoni; senza contare che un tipo di Khorasan era (e, marginalmente ancora è) coltivato anche tra Lucania, Sannio e Abruzzo: è la Saragolla, da non confondere con una omonima varietà migliorata di frumento duro ottenuta da incrocio e registrata nel 2004 dalla Società Produttori Sementi di Bologna. Inoltre non bisogna dimenticare che la germinabilità del frumento decade dopo pochi decenni, per quanto ideali siano le condizioni di conservazione. Tutto questo porta a riconoscere nella storia del presunto ritrovamento del Khorasan/Kamut solo una fantasiosa invenzione commerciale, elaborata per stimolare il desiderio di qualcosa di puro, antico ed esotico. E, a onore del vero, anche la stessa K.Int. ha preso le distanze dalla leggenda che, peraltro, ormai non ha più bisogno di essere incoraggiata.
Dai dati oggi disponibili, di fonte pubblica e privata, tra gli elementi di maggiore caratterizzazione del Khorasan ci sono un elevato contenuto proteico, in generale superiore alla media dei frumenti duri e teneri, e buoni valori di beta-carotene e selenio; per le altre componenti qualitative e nutrizionali non ci sono differenze sostanziali rispetto agli altri frumenti (vedi tabella 1 in fondo all'articolo).

Glutine: non ne è né privo né povero
Bisogna, infine, chiarire che, come ogni frumento, il Khorasan è inadatto per l'alimentazione dei celiaci, perché contiene glutine (e non ne è né privo, né povero, come, poco responsabilmente, una certa comunicazione pubblicitaria afferma o lascia intendere) e ne contiene in misura superiore a quella dei frumenti teneri e a numerose varietà di frumento duro (vedi tabella 2 in fondo all'articolo).
Detto ciò, il Khorasan è certamente un frumento rustico, con ampia adattabilità ambientale, eccellente per la pastificazione. Come ogni frumento che non è stato sottoposto a processi di miglioramento genetico o a una pressione selettiva troppo spinta, non ha un glutine tenace e di tenore elevato, e proprio per questo motivo pare che sia più facilmente digeribile dalle persone che soffrono di lievi allergie e intolleranze, comunque non riconducibili alla celiachia: ma questo è proprio ciò che si può dire anche dei farri e delle «antiche» varietà locali di frumento duro e tenero. Se la sua coltivazione è biologica (come permette la sua rusticità e come, per i propri prodotti, assicura il disciplinare del marchio Kamut), si può dire che senz'altro è un prodotto salutare, senza però scadere in esagerazioni né in forzature incoraggiate dalla moda e dal marketing del salutismo.

Costi elevati, per il portafoglio e per il Pianeta
Restano ancora tre aspetti che gettano un'ombra sul prodotto a marchio Kamut (ma non sul Khorasan!):
• il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più di chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e tramandato;
• il costo eccessivo del prodotto finito (dall'80 al 200% in più di una pasta di comune grano duro biologico), poco giustificabile a sostanziale parità di valori qualitativi e nutrizionali, dovuto al regime di monopolio, ai costi di trasporto, ai diritti di uso e ai costi di propaganda, ma dovuto anche agli effetti di un mercato dell'eccellenza che trasforma il cibo in oggetto di lusso, di gratificazione e di distinzione, e che specula sul desiderio di rassicurazione e sul bisogno di salute;
• la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto perlopiù coltivato dall'altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole attraverso una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che, solo per questo fatto, non è compatibile con la filosofia della decrescita e con l'attenzione al consumo locale, fatto se possibile a «chilometri zero».

Note:
Per i dati riferiti in questo articolo, sono stati consultati i siti dell'Associazione Italiana Celiachia (www.celiachia.it), dell'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (www.inran.it), della Kamut International (www.kamut.com), dell'United States Department of Agricolture (www.usda.gov), dell'Institute Scientifique de Recherche Agronomique (http://grain.jouy.inra.fr), l'articolo di A. R. Piergiovanni, R. Simeone, A. Pasqualone, «Composition of whole and refined meals of Kamut under southern Italian conditions» su Chemical Engineering Transactions,
2009, vol.17: 891-896.

Articolo tratto dall'arretrato del mensile Terra Nuova Marzo 2010 disponibile nella versione eBook.